Pietralba - Il santuario degli uomini dei monti
Produktform: Buch / Einband - flex.(Paperback)
Una volta all’anno, fin da piccolo, nella vecchia casa del paese di Vigolo Vattaro, sentivo le voci dei genitori e dei nonni preannunciare il vicino pellegrinaggio al santuario della Madonna di Pinè. Bastavano poche parole per gettare noi fanciulli nella gioia più incontenibile – finalmente un viaggio, finalmente l’aranciata al bar di Pergine Valsugana prima di inerpicarsi sulla montagna pinetana – e, nello stesso tempo, nella consapevolezza angosciosa della lunga, stancante e infinita camminata. Perché, a differenza di oggi, il pellegrinaggio consisteva nell’andata ma anche nel ritorno. E le gambe erano quelle che erano e nemmeno molto lunghe vista l’età. Non eravamo così convinti che la “grazia”, a cui noi bambini non riuscivamo ad attribuire contorni e significati chiari, fosse una valida ricompensa per tutta quella fatica.
Poi, durante le lunghe serate invernali, quando eravamo tutti in cucina attorno al focolare perché le altre stanze non erano riscaldate – soltanto i nonni avevano una piccola stufa ad ole –, ogni tanto usciva un nome: Baissiston. Su quel luogo magico, perché lontano, le parole si rincorrevano una all’altra. Si raccontava – per sentito dire anche dagli anziani – che il santuario era in mezzo a un bosco, che era pieno di avvenimenti prodigiosi, che lì si otteneva la grazia, che il contadino Leonhard aveva visto la Madonna più volte della pastora Domenica Targa. Che la chiesa era alta, come una muraglia calcinata, e i campanili parlavano con il cielo e le campane “ciarlavano” con i pini e gli abeti. Dicevano, gli anziani, che si doveva prendere la corriera fino a Trento, poi il treno fino a Laives, e poi a piedi per quattro o cinque ore fino al Santuario; quindi il ritorno. Almeno due giorni. Bisognava portarsi il cibo e qualche coperta.
Noi bambini, in un angolo, facevamo a finta di non ascoltare ma le orecchie erano ben attente a percepire ogni parola. Ne andava dei nostri piedi, della nostra fatica, delle nostre alzatacce. Però era anche l’occasione per uscire dal paese. Ci si separava per un po’ dal tran tran quotidiano per immergersi nel mondo, nella vita sociale. E poi, il Santuario. A letto, sotto le lenzuola, eravamo in quattro: i genitori e noi due figli. Su un materasso di “sfoiazi”, al freddo. E allora, curiosi, noi piccoli chiedevamo dei miracoli, se anche noi avremmo potuto accedere a quella beatitudine in terra senza aspettare l’aldilà, vedere la Madonna, vedere quel benedetto mantello celeste che ogni domenica ammiravamo nella chiesa neoclassica di Vigolo Vattaro, domandandoci se il cielo e le stelle fossero veramente come la pittura sulla scultura lignea.
Le immagini che ci costruivamo, di Baissiston e del viaggio, si sovrapponevano continuamente, s’ingrandivano, aprivano le porte alle storie che raccontava mia nonna sui dintorni del Santuario, lì dove abitavano un gigante e un drago. La tensione aumentava, il desiderio anche.
Anni sono passati, ma Baissiston è sempre rimasto nel mio immaginario, nelle mie fantasie. Irrompeva regolarmente nei miei pensieri finché un giorno – avevo diciott’anni – presi il treno e a piedi mi recai al Santuario. Fatica immane, paura di perdermi – allora non c’erano segnavia del Cai o dell’Alpenverein –, attesa. Finché eccola la grande facciata bianca. Era come me la raccontavano da piccolo. Tutto coincideva. Al gigante e al drago ci avrei pensato dopo. Intanto avevo trasformato l’immaginario meraviglioso in realtà.weiterlesen
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